Il Branco

Premessa fondamentale: dopo questo racconto ho capito che scrivere di cose che non mi piacciono è molto difficile, soprattutto se il tentativo è quello di esaltare i soggetti in questione.

Ebbene sì, sarebbe sciocco dire che dell’ambientazione Vampire the Requiem mi piaccia tutto, anche perchè delle preferenze sono inevitabili, sia per concetto di vampiro, gusti e indole personale: io sono sincera e dico che il clan dei Gangrel, protagonisti di questo racconto, non è tra i miei preferiti.

Detto questo, per par condicio, ho descritto anche loro, cercando di immedesimarmi in qualcosa che mi è molto, molto distante.
Altra premessa altrettanto fondamentale: prima vi consiglio di leggere (o rileggere) un racconto in particolare, Sangue di Re, il motivo è che vi renderà la lettura più completa e intricata, così come è il Requiem di ogni vampiro. Trame e sottotrame si intrecciano continuamente, a volte scontrandosi, a volte avvicinandosi l’una con l’altra senza vedersi mai…

Buona lettura!

Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com

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Milano, Aprile 2017, Eliseo della Lancea Sanctum

“Io sono  Genesio Durini, figlio di Federico II Durini, figlio di…”

Meerda. Proprio io dovevo beccarmi il Ventrue?

“…conte di Bergamo, figlio di Elio Durini…”

Venti minuti solo per presentarsi. Venti fottutissimi minuti ad elencare avi e trisavoli come si fa una lista.

Di fronte a sé, il neo baronetto Invictus continuava la sua cantilena, tutto tronfio di mostrare la lunghissima genealogia e una memoria di ferro nel ricordarsela tutta.
Lei d’altro canto aveva smesso di prestargli attenzione, ma cercava di non darlo a vedere sebbene le riuscisse difficile: non era mai stata brava a dissimulare.
Forse era il suo carattere, forse il suo clan, in ogni caso la schiettezza era la sua arma preferita e decise di usarla anche in quel momento, bloccando l’ormai soliloquio del Durini con uno sbrigativo:

“Molto piacere, molto piacere: Isabella Sparavieri.”

Il vampiro sembrò quasi indispettito, ma la famosa etichetta dei nobili Invictus gli imponeva un galateo cortese  anche in presenza di una come lei, che di regale non aveva neanche la punta delle scarpe.
Era una donna sulla trentina, alta nella media e dalla corporatura massiccia; a volte nel suo vestiario trasandato compariva una lama corta, ma spesso e volentieri girava con i suoi guanti di pelle incrostati di sangue rappreso, per testimoniare che menare le mani era il suo forte.
Nonostante ciò, non mancava mai di dipingersi sul viso un drago tribale rosso, un disegno che le occupava metà viso e che ricordava, a chiunque la notasse, a che congrega appartenesse.
Eppure qualche genio non mancava di chiederglielo, cosa che pure il Durini non riuscì a non fare. Isabella, con un sorrisetto sarcastico, esclamò:
“Nah, mi piace solo pitturarmi draghi sulla faccia, eccellenza.
“Beh, ognuno ha i suoi gusti…”

E problemi mentali.

Si morse la lingua per non dirlo e si fece male. Credeva che quel Ventrue avesse capito l’antifona e se ne andasse e invece fu abbastanza masochista  nel farle un’altra scontatissima domanda:

“Siete una Selvaggia, giusto?”

Lei allargò appena le braccia.
“Sentite la puzza di cane, mh?”

E si defilò, senza dargli la possibilità di rispondere.
Quando fu certa di non essere più nel radar di quel rompicoglioni, si appoggiò al primo muro utile che le desse una visuale completa della sala e dei Dragoni. Li cercò tutti con lo sguardo e li vide, chi più e chi meno, intrattenuti dagli altri vampiri delle altre congreghe o clan.
Incrociò lo sguardo di un altro dragone rosso, il suo Comandante, e gli fece intendere che la situazione era tranquilla, ce l’aveva sotto controllo.
Lui le fece un cenno e voltò le spalle, tornando a fare ciò che i draghi rossi sapevano fare meglio: controllare, monitorare, proteggere gli altri dragoni.
Isabella gonfiò appena il petto e si staccò dalla sua postazione. Stava lavorando da mesi per brillare agli occhi del suo superiore e, modestia a parte, ci stava riuscendo egregiamente.

“Chi era quello che ti aveva abbordato?”

Ruotò il capo in direzione della voce familiare che aveva scosso i suoi pensieri e alla sua destra comparve la figura longilinea di Vittoria.
Fece una smorfia.

“Un cazzo di Ventrue” rispose “Un Durini…figlio di un Durini…figlio di un altro Durini…”
“Che palle. A malapena sopporto quelli che stanno nel Circolo della Megera…”
“I Ventrue da voi sono diversi…non è che il vostro culto li plasma?”

L’altra si lasciò sfuggire una mezza risata e poi fece spallucce.

“Chi lo sa. Una cosa è certa: danno troppa importanza a ciò che erano o sono stati, al passato insomma. Come dice sempre l’Alpha?”
Non importa chi eri nel passato, ma chi sei adesso.

Entrambe guardarono il Selvaggio seduto a cavalcioni su una sedia, vestito di nero e macchie di polvere, intento a interloquire con due pompose signorine Daeva, falsamente caste e ipocrite quanto la croce santificata che portavano al collo.
Efesto, senza cognomi e senza oneri, le osservava con quel suo solito atteggiamento da ignorante che la faceva sempre divertire, perché sapeva bene che in realtà era tutta una grossa presa di giro per il malcapitato di turno che si atteggiava senza rendersi conto della beffa a cui era sottoposto.

“Se sono tanto intelligenti” diceva “Perché non si accorgono che li sto prendendo per il culo?”

Non faceva una piega.
Tutti presi dal pavoneggiarsi costantemente da non rendersi conto dell’immediato presente, ossia che un Gangrel li stava sfottendo, sotto gli occhi di chiunque!
Vittoria al suo fianco scosse la testa e ruotò il busto verso di lei facendole un cenno verso l’uscita.
Sapeva cosa voleva dire e, come tutte le volte, sospirò.

“Non posso, lo sai bene.”

L’altra sbuffò ed imprecò in una lingua a lei sconosciuta, probabilmente di qualche posto strano dell’Est. Non si era mai interessata della provenienza della megerita, l’unica cosa che le interessava era che aveva un buon contatto con gli spiriti della natura, un po’ come tutti i Selvaggi ma, essendo nel Circolo della Megera, era più avvantaggiata.
La sua giovinezza, tuttavia, spesso era un fattore limitante: se l’impulsività è qualcosa di intrinseco di un Gangrel, in un neofita del clan è difficilmente controllabile.

“Ma questi Dragoni non sono autosufficienti? Devi fare tu la loro balia?”
“Non è così semplice, Vittoria.”
“Sarà. Mi sembri molto in gabbia, però.”

La vide voltarsi e prima di imboccare l’uscita, le sussurrò:

“Se ci ripensi sai dove trovarmi, eh.”

La chioma bionda e scarmigliata scomparve dalla sua vista ed Isabella si trovò nuovamente sola.

In gabbia, mh?

Spesso si era chiesta se fosse vero, se le responsabilità che l’Ordine del Drago le dava e tutto ciò che comportava fossero castranti per uno spirito libero come il suo; spesso si domandava se non dovesse lasciare tutto come faceva la giovane Vittoria, uscire e mutare la sua forma in animale per poi correre via dove la civiltà lasciava spazio al buio e le voci umane si assottigliavano ai sibili e stridii della fauna notturna.
Come potevano capire, gli altri, l’ebrezza del vento che lotta contro la corsa, sferza sul muso e sulle gambe; come potevano, loro che sopivano e reprimevano la Bestia?
Tutti i vampiri sono Bestie. Tutti i vampiri sono destinati a diventarlo, tutti lo sono quando cedono al sapore e all’odore del sangue, anche i pomposi Invincibili dentro i loro completi e vestiti, i Santificati dietro i loro dogmi e la religione e così gli altri. Pure quel Durini, il Ventrue impettito che si faceva vanto della sua discendenza: anche lui, dopo giorni di digiuno, avrebbe avuto l’aspetto di un cane affamato, con il viso pallido e gli occhi stralunati, i capelli polverosi e le narici dilatate; avrebbe fiutato la sua vittima, l’avrebbe seguita a distanza e al momento propizio sarebbe partito all’attacco, rovinandosi il bel vestito viola damascato.
Affondando i canini, famelico e voglioso, sulla vena pulsante più ricca del collo, si sarebbe crogiolato nel piacere della sazietà e, grugnendo di gusto con il sangue sul mento, avrebbe gioito di quella vita umana in procinto di finire a favore della sua infinita esistenza.
Mors tua, vita mea.
Fanculo la nobiltà, fanculo la genealogia, in quel singolo attimo anche lui sarebbe stato come chiunque altro: un animale che ha fame.

“Sparavieri!”

Efesto le faceva cenno di avvicinarsi. Le due Daeva della Lancea Sanctum si erano volatilizzate e di loro rimaneva soltanto il leggero cicaleggio civettuolo e le risatine composte.
Prese una delle due sedie e la trascinò rumorosamente di fianco a quella del Selvaggio, facendo sì che tutti si voltassero per vedere chi avesse osato disturbare la quiete dell’eliseo.
Isabella ghignò e si mise seduta, divaricando le gambe.

“Conversazione interessante?”

Lui si mise teatralmente in posa e rispose con tono vagamente scimmiottante:

“Longino è grande, entrate nella Lancea Sanctum Efesto…” roteò gli occhi al cielo “Mi sono sorbito diversi tipi di proselitismo, ma quello dei Santificati penso sia il più noioso, subito dopo c’è quello degli Invictus.”

“Ma ancora non avete trovato un posto dove andare? Insomma, nessuna congrega vi ispira?”

Efesto scrollò le spalle e fece quella smorfia che voleva dire tutto e niente. Erano anni che lo conosceva e anni che nel branco dei Selvaggi milanesi era riconosciuto come capo, l’Alpha, eppure non riusciva a capire certe sue scelte, come quella di non affiliarsi da nessuna parte.
Certo era che faceva gola a molti, le sue doti di combattente erano state rese note ai diversi tornei di lotta che si erano tenuti nella città: questo aveva attirato per lo più Invincibili per poterlo inserire nel corpo armato esclusivo dei Grifoni, composto per lo più da Gangrel, e il Movimento Cartiano che raccoglieva spesso molti elementi validi dal punto di vista fisico.
Lui però non aveva mai mostrato interessi particolari, ascoltava tutti e incamerava, a volte quando non era affatto interessato inscenava la scenetta dell’ignorante solo per divertirsi; eppure mai gli aveva sentito dire di avere una preferenza per una o l’altra congrega.

“Un giorno, forse, farò la mia scelta.” Disse infine, guardando la stanza senza interesse.

Studiò il suo profilo delineato da una folta barba rossiccia e tatuaggi tribali che dalla tempia ornavano tutto il cranio, formando un complesso disegno concatenato fatto di simboli, animali e altri disegni a cui lui aveva dato un senso: tutti erano elementi di riti di passaggio, pezzi della sua vita di vampiro, dipinti sulla sua pelle con il sangue e con il fango.
Aveva sentito dire di alcuni Selvaggi anziani che coltivavano questa usanza di portare sul proprio corpo la testimonianza dei momenti fondamentali che li rendevano membri di un branco, quegli specifici membri, unici e insostituibili.
Quando gli aveva chiesto, all’inizio della sua danza macabra, che differenza ci fosse tra questo e la vanità dei Ventrue nello sbandierare a destra e a manca la loro discendenza, Efesto l’aveva fulminata con lo sguardo e, con disprezzo, le aveva risposto:

“Puoi essere figlia di un conte, un principe e un re: ma se nella tua danza non ti guadagni alcun titolo e vivi di rendita, cosa sei per davvero?

Quei simboli erano un viaggio, lungo e tortuoso  ma che rendevano Efesto ciò che vedeva adesso: il suo Alpha, il Gangrel più forte del branco di Milano, saggio e determinato, protettivo e leale verso i suoi Selvaggi.
Un titolo meritato e conquistato.

“Quella non è Vittoria Da Seveso?”

Se non fosse stato per l’espressione corrucciata di Efesto probabilmente non avrebbe reagito con la stessa rapidità che usò per ruotare il busto, incontrare la figura della vampira bionda e alzarsi dalla sedia meccanicamente. Fece qualche passo per andarle incontro e lei le rivolse un’occhiata che confermò la sua ipotesi iniziale: era successo qualcosa.

“Dobbiamo uscire tutti” iniziò a dire, per poi rivolgersi ad Efesto “ Convocate una riunione, Alpha.”
“Spiegati, che è successo?”
“Non c’è tempo! Lui ha detto…”
“Lui chi?”
“Un Gangrel.”

Isabella cominciava a spazientirsi e dovette trattenersi dal tirare un manrovescio alla giovane.

Cazzo, perché non parla chiaro?

Efesto si alzò lentamente dal suo posto e si avvicinò alle due. Posando una mano ferma sulla spalla di Vittoria le pose la stessa domanda con una calma che quasi pareva irreale ma che tuttavia funzionò: la Selvaggia, dopo un attimo di esitazione, dichiarò:

“Dice di volervi sfidare a duello, Efesto. Il suo nome è Minotauro.”

Che…?

Cercò con lo sguardo l’Alpha, ma ciò che vide non la rassicurò: per la prima volta sul suo viso c’era stupore e una scintilla flebile ma visibile di qualcosa che non credeva di potergli vedere addosso.
Paura.

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Il cortile interno al palazzo era stranamente gremito di Selvaggi che si guardavano intorno, chi con circospezione e chi con curiosità.
La notizia si era sparsa in fretta nel branco e tutti adesso stavano attendendo l’arrivo di questo Minotauro che aveva l’intenzione di sfidare l’Alpha Efesto, che se ne stava al centro del praticello apparentemente rilassato.
In realtà aveva ogni muscolo teso, lo si poteva notare dalla mascella contratta e le mani che artigliavano la tasca dei jeans logori, gli occhi scuri vagavano alla ricerca di un volto sconosciuto, ma incontrava solo i suoi Gangrel che gli restituivano uno sguardo intriso di ignoranza nei giovani e apprensione in chi conosceva cose tramandate nei secoli di generazione in generazione.
Poi c’era lui, Lorenzo Casati, che aspettava con trepidazione l’arrivo del millenario Minotauro: sì, perché anche lui conosceva la famosa leggenda che si prefiggeva lo scopo di giustificare la nascita del clan dei Selvaggi.
Il mito ampiamente diffuso nella cultura dei mortali della creatura metà umana e metà toro, in realtà aveva un particolare che non era stato reso noto: l’unione perversa tra il toro di Poseidone e la moglie di Minosse, Parsifae, diede vita a un altro abominio che, a differenza del fratello, aveva in dono la bellezza dei guerrieri cretesi e la capacità di tramutarsi in animale a suo piacimento.
Minotauro iniziò a vagare per le campagne dell’isola greca sterminando la popolazione, vivendo nel dolore di esserne carnefice e la continua, incessante fame. Questo, secondo i vecchi delle varie famiglie italiane, fu il primo Gangrel che diede origine ad altri suoi simili che si sparsero a macchia d’olio nel Mediterraneo.
Quel dannato di chissà quanti anni adesso sembrava essere proprio lì a Milano e lui era l’unico a fremere sul posto, smanioso di vedere la leggenda che diventava realtà: perché tutti erano così preoccupati?
Si guardò intorno, iniziando dal gruppetto di giovani finendo poi su Isabella, la combattente dell’Ordine del Drago.

Possibile che sia circondato da ignoranti e mammolette? Cazzo, è un millenario. Un millenario!

Efesto sembrava spazientirsi: scalciando per terra aveva cominciato a girare in tondo.

Nulla contro di te, sia chiaro…ma io pagherei per confrontarmi con uno del genere!

All’improvviso, qualcosa nell’aria cambiò. Il cerchio del branco si spaccò sul lato sinistro e, in mezzo a ringhi e sibili, si fece largo un uomo, solo. Camminò fino al centro, a tre metri da Efesto che arretrò flettendo le gambe e incurvando la schiena.
Non se ne era reso conto, ma pure lui si era allontanato e abbassato; in più dalla sua gola usciva un ringhio soffocato, molto più controllato di qualche altro che sembrava in preda a una strana frenesia.
Quando le acque si furono parzialmente acquietate, Lorenzo cercò di rimettersi in posizione eretta, ma si accorse di non riuscirci: quel dannato lì era molto, molto forte. La sua potenza di sangue era schiacciante, lo costringeva a stare lì chinato e soprattutto immobile, come se spostare un piede equivalesse a una minaccia fatale.
Lì bloccato, però, riuscì a levare gli occhi sul nuovo giunto e lo scrutò bene.
Era un giovane ragazzo, probabilmente sulla ventina, pallido ma al contempo abbastanza muscoloso. Le braccia tornite erano variopinte con una moltitudine di simboli che serpeggiavano sulle mani, le dita, fluivano su ogni lembo di pelle visibile tranne sul viso dove troneggiava, sulla fronte, un toro stilizzato.
Nel vederlo non poté fare a meno di pensare che le leggende erano vere sulla sua avvenenza: il volto era incorniciato da folti capelli castani, i lineamenti delicati sembravano scolpiti sul marmo e gli occhi erano due brillanti pietre d’onice.
Quando il suo sguardo si posò sulla sua persona, fu per lui istintivo chinare la testa e guardare per terra.
Il rispetto per gli anziani era qualcosa che il suo sire gli aveva insegnato sin dal primo giorno e lo aveva punito malamente quando si era dimostrato sprezzante nei confronti di una Selvaggia centenaria della famiglia: mentre lo sfiancava di pugni continuava a dirgli che in un branco il più vecchio era il più saggio, per questo meritava di essere riconosciuto e apprezzato.

“Lunga notte, Selvaggi. I miei Selvaggi.”

La sua voce sembrava un rombo di tuono, imponente e maestoso.

“Sono stato per anni in torpore e per molti altri latitante. Solo qualche mese fa ho deciso di palesarmi al mio branco.”

“Il vostro branco?” ringhiò Efesto con un coraggio inaudito.

Minotauro non replicò, limitandosi a guardare l’Alpha e ad inclinare da un lato il capo.

“Voi siete l’Alpha, immagino.”
“Cosa volete? Cosa ci fate qui?”
“Ciò che voglio è unificare il branco dei Selvaggi italiani.” Rispose semplicemente “Un grande gruppo compatto, guidato da me.”

Quell’ultima frase la disse in un modo così perentorio che qualsiasi controproposta era impossibile anche pensarla; tuttavia, Efesto non dava cenno di cedere, rimanendosene a tre metri da quel mostro sacro.

“Conosco le tradizioni” continuò “E per questo io questa notte vi sfido per il titolo di Alpha di questo branco.”

Lasciò scendere le braccia lungo i fianchi e non disse più altro.
Ciò che avvenne dopo fu una successione di colpi e controcolpi, movenze fluide del Minotauro e passi pesanti di Efesto, il tutto tra ringhi e il silenzio dell’intero pubblico.
In realtà Lorenzo era certo che qualcuno volesse tifare per l’Alpha, ma non aveva il coraggio di incitarlo, non con una presenza di quel calibro, non con il primo Gangrel della storia.
I colpi che il vampiro millenario infieriva avrebbero potuto far crollare un palazzo e lui si chiedeva come facesse Efesto a rialzarsi ogni volta, a tratti ciondolante, a volte scattante; eppure continuava a tirare pugni, testardo e orgoglioso, determinato e risoluto: lottava con tutte le sue forze e questo gli faceva onore.
Proseguirono così, un cazzotto alla volta, fin quando non divenne sempre più chiaro che Efesto stesse arrancando e infine, dopo l’ennesimo colpo con cui fu spedito a terra, non si rialzò più.
Nel cortile aleggiò un silenzio pregno di attesa.
L’Alpha di Milano era stato sconfitto e il neo vincitore svettava su di lui, guardandolo fiero e composto come un leone, ma non c’era disprezzo nella sua espressione, anzi, quello del Minotauro era silenzioso rispetto.

“Siete stato un degno avversario” gli disse avvicinandosi “Un guerriero impavido, come quelli che ho visto nelle guerre della mia madre patria: valorosi condottieri, fieri e leali con i propri fratelli.”

Gli tese la mano e concluse:

“Vi unirete al mio branco e porterete il vessillo del Minotauro, voi, i Selvaggi di questa città e presto quelli dell’intera penisola. Il viaggio sarà lungo, ma a voi do il compito di tenere uniti questi fratelli attorno a noi, fatelo nel nome del vostro Alpha.”

‘Questo è un pezzo di storia’, mormorava qualcuno accanto a Lorenzo.
Non poteva dargli torto.
In quella notte si apriva un nuovo capitolo dei Selvaggi e lui avrebbe potuto dire alla sua futura progenie di esserci stato e, perché no, di aver contribuito a scriverne un pezzo.

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Settembre 2017, Eliseo di Bologna

“Dunque questo Minotauro cosa sta facendo di preciso?”

Isabella scattò sulla sedia e si voltò di scatto verso la Crepuscolare, Samar Tarèkh.

Come cazzo ha fatto a saperlo?

Lei sembrò leggerle nel pensiero e, con un sorriso appena accennato, le sussurrò in modo complice:

“Vi ricordate a che clan appartengo?” fece spallucce “Il mercato delle informazioni è il nostro pane quotidiano.”

“Dannate Ombre.” Sbottò con una smorfia “Non vi si può nascondere niente.”

Samar fece una risata e si mise a giochicchiare con il ciondolo a forma di compasso massonico. Nonostante la vedesse assorta nell’esaminare quella chincaglieria da quattro soldi, Isabella era sicura che in realtà tutte le attenzioni erano canalizzate sulla sua persona: se i suoi occhi erano impegnati, le orecchie entravano in azione in quel modo strano che tutte le ombre avevano.

Sensi amplificati. Bel potere, veramente bel potere.

“Minotauro vuole unire tutti i Gangrel sotto il suo comando, un grande branco.”

La Mekhet alzò entrambe le sopracciglia, ma non disse niente. Qualcosa le faceva credere che sapesse anche questo, quella dannatissima ficcanaso.

“Beh…” alzò gli occhi scuri dal suo intrattenimento per incontrare i suoi “Era a Roma, a Maggio.”

Sì, questo lo sapeva. La sconfitta dell’ex Alpha della città, Massimo Caetani, le era giunta alle orecchie da Efesto, qualche notte dopo la sfida nella capitale; anche il branco romano si era unito alla causa del Minotauro e, da fonti ancora da accertare, pure quello di Potenza.
Mancava solo Bologna e poi…già, poi?
Perché tutti i Selvaggi dovevano essere uniti?
Era un modo per tenere saldi i fratelli in un periodo di divisioni, o c’era qualcosa sotto che era sfuggito a tutti quanti?
Tante domande, poche risposte.
Efesto sembrava così convinto della missione del Minotauro e lei cercava di vedere con i suoi stessi occhi il futuro che si prospettava per il branco italiano, ma il suo essere dragone con l’attitudine naturale a vedere le cose da più punti, la faceva dubitare del millenario leggendario.

“Isabella.”

Sia lei che Samar si voltarono verso la porta dove stanziava il Cartiano Lorenzo Casati. Le fece un cenno che intuì immediatamente: era ora. Entrambi erano stati mandati da Efesto come suoi emissari per riferirgli ciò che sarebbe successo dalla sfida tra il Minotauro e l’Alpha della città, Gregorio Monterumici.

“Scusatemi, Samar.”

La Crepuscolare fece un cenno ma, prima di uscire, le giunse alle orecchie la sua voce melliflua:

“Ditemi chi ha vinto, ci conto!”

Lorenzo fissò in tralice la Mekhet e poi, mentre uscivano dalla villetta a grandi passi, le chiese a bassa voce:

“Sa qualcosa?”
“E’ un’Ombra, Lorenzo. Secondo te?”
“Merda. Ma come fanno a sapere sempre tutto?”

Sensi amplificati, oscurarsi alla vista altrui, velocità aumentata per sfuggire agli occhi dei più.
Tre ingredienti perfetti per la spia perfetta.
Davvero aveva il coraggio di chiedersi come fosse possibile che fossero ovunque e ascoltassero chiunque?

“Dove sono tutti?” chiese lei tagliando corto
“Sulla collina.”

Il Movimento Cartiano aveva scelto bene la location per l’eliseo: una villetta sperduta nelle campagne bolognesi, lontano dalla città e con minori possibilità di infrangere la maschera; soprattutto perché conosceva il modus operandi del Minotauro e non era per niente silenzioso.
Risalirono il pendio da cui già sentiva provenire il vociare del Monterumici: era nervoso, ma come dargli torto?
Il branco di Bologna era il più numeroso tra tutti gli altri; contava nove membri di cui quattro Invincibili, due megeriti e due cartiani. I membri del Primo Stato erano tutti dei Grifoni e militavano a fianco del Monterumici, Principe di Bologna, mentre gli altri erano elementi piuttosto ordinari delle rispettive congreghe.
A lei personalmente,quell’Alpha stava sul cazzo.
Vuoi perché era Invincibile, vuoi perché essendo Principe si atteggiava a Ventrue tutto imbellettato nel suo mantello di pelliccia, o forse perché sembrava avere l’acume di una pietra pomice; l’unico motivo per cui non l’aveva ancora mandato a quel paese era perché nonostante tutto era comunque più anziano e lei rimaneva ligia al caro rispetto tanto paventato nel clan.
Nel suo piccolo, però, aspettava di vederlo soccombere sotto i pugni implacabili del Minotauro e, senza farsi vedere, avrebbe pure sorriso di gusto.

Si misero in cerchio come avevano fatto a Milano e attesero.
Non passò molto tempo, il suo vero Alpha giunse e causò la stessa reazione e stupore che lei e Lorenzo avevano già provato: potenza, minaccia di un sangue più forte, sorpresa di vedere quella figura leggendaria, rispetto.
Si levarono ringhi acuti e tutti si chinarono al cospetto dell’uomo cretese dagli occhi di onice.
Monterumici era stato messo al corrente della sfida che avrebbe dovuto affrontare, infatti non si perse in chiacchiere e iniziò subito a combattere.
Si sorprese nel notare che il Principe avesse più resistenza di Efesto: la lotta durò più tempo rispetto a quella che dovette affrontare il suo concittadino, cosa che le fece ammettere che fosse meno prestante di quel Selvaggio che si rialzava più volte e colpiva sul volto il guerriero instancabile.
La disfatta, però, era inevitabile.
Monterumici alla fine cadde e, come aveva visto a Milano, Minotauro si dichiarò Alpha di Bologna e quindi di tutta Italia.
Isabella tirò un leggero sospiro di sollievo.
Era fatta, la missione del primo Gangrel era compiuta, tutti i Selvaggi erano riuniti sotto un’unica bandiera.
Tuttavia accadde qualcosa d’inaspettato.
Lo sconfitto, con un ringhio forte e rabbioso, si rialzò in piedi e gridò:

“IO NON MI SOTTOMETTERO’ MAI, MAI!”

L’antico Selvaggio inarcò un sopracciglio, ma mantenne una compostezza irreale.

“Avete perso, Monterumici. Vi ho sconfitto in un regolare duello, io sono il più forte.”

“IL MIO BRANCO NON SI SOTTOMETTERA’ A QUESTA FARSA!”

In un attimo, senza riflettere, lei e Lorenzo si mossero all’unisono e affiancarono Minotauro, il loro Alpha.
Gli occhi infossati del Principe di Bologna le si piantarono addosso, furenti e bestiali.

“VI STATE FACENDO INFINOCCHIARE, IDIOTI! QUESTO VUOLE COMANDARE, FARE IL RE, COME I VENTRUE!

“VOI SAPETE COSA STA PER ACCEDERE!” urlò di rimando Lorenzo

Cosa?

Lo ricercò con gli occhi, ma il cartiano non la stava guardando.

Cosa non mi è stato detto?

Il Monterumici intanto continuava a delirare, sputacchiando a destra e a manca:

“I SELVAGGI NON HANNO BISOGNO DI UN RE!”

Si levarono parole rabbiose, confuse in rumori gutturali e ferali; ed infine uomini e donne furono sostituiti da lupi, cani, gufi, aquile: tutto il branco di Bologna lasciò la collina in forma animale.
Il silenzio avvolse le tre figure rimaste sole sotto il cielo plumbeo e l’aria settembrina.
Fu lei a rompere le righe e, piazzandosi davanti a Lorenzo, gli ringhiò contro:

“Cosa mi state nascondendo? Cosa sapete?”

“E’ un’informazione riservata…”

“Vaffanculo Lorenzo!”

“Non ti azzardare…”

“Basta, fratelli. Basta.”

Si bloccarono entrambi. Minotauro si era voltato e rivolgeva loro uno sguardo stanco.
Lorenzo provò a balbettare qualcosa ma fu zittito da un gesto blando della mano.

“Ormai deve venirne a conoscenza” sentenziò l’Alpha “Altrimenti sarà peggio.”

Si fermò, come se dovesse trovare le parole ed infine cominciò, come un fiume in piena:

“Non sono venuto qui per caso, Isabella. Anni addietro scoprii una minaccia, apparentemente lontana, e mi impegnai con tutte le forze per tenerla distante dalla penisola…ma ho fallito. Quando mi resi conto che ormai era troppo vicina, decisi che avrei dovuto riunificare tutti i Selvaggi italiani: almeno noi saremmo stati uniti per fronteggiare questo nuovo pericolo. Noi, rispetto a questi altri idioti che si lustrano di accordi politici e cariche nobiliari, abbiamo qualcosa che nessuno può eguagliare.”

Allargò le braccia.

“Il branco. Il branco ci unisce, il branco ci forgia. Insieme, ci sosteniamo a vicenda e non ci macchiamo di tradimento…almeno non sempre.”

“Cosa…cosa faremo del Monterumici?”

Minotauro sospirò, stanco, visibilmente stanco.

“E’ un pazzo se pensa che riuscirà a fronteggiare ciò che accadrà…lo lascerei pure andare, se non sapessi che si trascinerà altri fratelli, portandoli a morte ultima: non posso permetterlo. Lo convocherò in nome di una delle più antiche delle nostre tradizioni, in uno scontro in cui in palio c’è la sopravvivenza.”

Isabella aveva una vaga idea di quale tradizione stesse citando, ma non ne era sicura.
Le ritornò alla mente uno dei tanti racconti di Efesto su un’usanza dei Selvaggi, chiamata Guidrigildo; un modo per fare giustizia in fretta in un periodo molto antico, quando un elemento si macchiava di reati contro il suo branco o contro i suoi parenti.
Ciò che serviva era una radura, i due contendenti e solamente le abilità e capacità date dalla propria costituzione, niente armi, niente aggeggi esterni: solo la pura essenza dei due Selvaggi messa a confronto in una battaglia all’ultimo sangue.
Rifiutare il Guidrigildo, significava passare immediatamente dalla parte del torto agli occhi di tutto il clan.
Non che Monterumici avesse una minima possibilità di avere la ragione, ovvio: era stato sconfitto e non aveva accettato il nuovo Alpha di fronte al suo branco che, nonostante questo, lo stava seguendo ciecamente.
Non comprendeva se fossero dei decerebrati o fossero stati raggirati: in quel caso avrebbe dovuto rivalutare le doti intellettive del Principe.
In tutto ciò comunque non aveva ancora capito una semplice ma fondamentale cosa.

“Alpha” ne ricercò l’attenzione, cercando di modulare la voce per evitare di sembrare arrogante “Ma la minaccia di cui avete parlato…qual è?”

“Licantropi. Un gruppo di licantropi.”

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Novembre 2017, al confine tra l’Emilia Romagna e la Lombardia.

Soffiava un vento gelido che avrebbe fatto rabbrividire ogni vivente in quella notte di luna nuova, ma non loro, non i Selvaggi del Minotauro.
In una sperduta pianura dimenticata dai mortali, nei pressi di qualche fiume di cui non sapeva il nome, il Branco riunito sotto il vessillo del Toro era in attesa.
Spiccava tra tutti la figura rigida e austera dell’Alpha, il vampiro cretese dagli occhi di onice, i suoi tatuaggi e simboli tribali quasi sembravano risplendere anche in quella notte scura, lui irradiava una forza così prepotente che tutti i presenti ne erano invasi, sentendosi per qualche istante insormontabili; come se quel disegno stilizzato del toro desse loro un potere.

“Si è fatta quasi la mezzanotte” affermò.

Si levò un leggero mormorio: si presenterà? No, secondo me è codardo fino alla fine…

Fu Vittoria, la megerita, a dare voce a una verità sacrosanta:

“Ma se dovesse rifiutarsi passerà dalla parte del torto, immediatamente! Allora che senso avrebbe avuto fare tutto questo?”

Una nuova folata di vento li interruppe e il Minotauro, inspirando flemmaticamente, annunciò:

“Arrivano.”

Non aveva torto.
Non poteva comprendere che fiuto avesse un millenario, sicuramente più di chiunque altro presente in quello spiazzo di terra: nessuno si era accorto della venuta del branco reietto, non fino a quando non fu abbastanza vicino da solleticare anche le altre giovani e più inesperte narici.
Si allinearono tutti e nove, al centro il Principe di Bologna che per l’occasione si era dipinto un toro sulla fronte, diviso a metà.

Molto maturo, Monterumici , pensò Lorenzo, veramente molto maturo.

Efesto invece non fu dello stesso avviso. Con la sua solita andatura goffa e pesante fece qualche passo verso di lui sibilando:

“Come osi, cane…”

“No, Efesto”

Minotauro lo fermò con un tocco tranquillo sulla spalla: pareva una carezza ma qualcosa gli diceva che in realtà l’altro fosse veramente impossibilitato a proseguire.

“Avanti, Gregorio, la resa dei conti è giunta. Che il Guidrigildo abbia inizio!”

Scattarono entrambi ma non solo loro due.
Gli otto selvaggi alle spalle del Monterumici si mossero, sinergici e ghignanti, tutti in direzione del Minotauro.

Lorenzo era spiazzato.

Che…?

Cercò Isabella e la vide, specchio della sua stessa faccia attonita.

“Che cazzo fanno?!” gridò

Ah, la cara Isabella. Sempre capace a dare voce ai suoi pensieri.
Intanto tutto il branco di Bologna correva verso il Minotauro che ovviamente non arrestò la sua corsa anche se nella sua andatura era cambiato qualcosa: c’era stato un breve rallentamento, come se quell’azione avesse sorpreso pure un antico come lui.

Figli di puttana, in nove contro uno!

Dopo il grido di Efesto di entrare in azione per difendere l’Alpha, il Selvaggio spense il cervello.
Iniziò a correre forsennatamente, si avventò contro il primo che gli capitò a tiro e insieme rotolarono per terra tra l’erba umida e la terra.
Si presero a pugni buttandosi prima uno e poi l’altro a terra, rivoli di sangue iniziarono ad uscire dalle narici e dalle bocche, ma loro niente, continuavano quella lotta assurda, mentre tutt’intorno risuonavano i rumori secchi di ossa rotte e tonfi sordi di calci sulle costole.
Solo dopo averlo spinto con un calcio, guardò in faccia il suo avversario e lo riconobbe: era un Grifone, Samuel D’Este, un suo compagno di molte missioni tra il branco bolognese e milanese; piccolo e tarchiato, un carro armato di piccole dimensioni con un bel gancio destro e una storia poco felice.
Avevano lottato insieme, corso insieme, fraternizzato nonostante fosse un Invincibile e lui un membro del Movimento Cartiano; ora ce l’aveva di fronte, incattivito e belligerante, spinto da quel fottuto coglione del Monterumici.

“Sam…”

L’altro colse il momento di distrazione e gli sferrò un montante poderoso che lo buttò per terra, facendogli sputare due denti.

“Cazzo…!”

Tornando a guardare l’altro Selvaggio che troneggiava su di lui, vide qualcosa che conosceva molto bene ma che, in quel momento, non credeva possibile.
Lorenzo non riusciva a crederci.
Guardò le mani di Samuel e l’arma naturale che ogni Selvaggio aveva, un’arma capace di portare qualsiasi vampiro in cenere: gli artigli dei Gangrel.

“Davvero?! Sam!”

Il Grifone sferrò un colpo pericoloso che non andò a segno, anche se per poco: quando si rimise in piedi, Lorenzo notò che la maglietta che aveva indosso era stata tranciata sul lato destro.
Avrebbe voluto cercare il dialogo. Una parte di lui voleva davvero capire, cercare di dissuadere il compagno a continuare quella pazzia, dirgli che questa lotta non riguardava loro ma il Minotauro e il Monterumici, ma altro prese il sopravvento, altro mosse le sue intenzioni e azioni.
Quella minaccia, gli artigli, risvegliarono l’indole bestiale di ogni vampiro, soprattutto di un Selvaggio: l’istinto di sopravvivenza.
Un animale quando si sente braccato ha due reazioni: fuggire o contrattaccare.
Lui non era uno che scappava, non lo era mai stato.
In quel momento Samuel era una minaccia letale e lui l’avrebbe eliminata, in ogni modo.
Per questo le sue mani iniziarono a mutare e dalle sue dita comparve poco a poco la sua ultima spiaggia, i suoi artigli.
Rabbia, grida, furore.
Ogni tanto sentiva la voce del Minotauro:

“E’ una questione che riguarda noi, non il branco! Fai cessare questo fratricidio!”

E ancora botte, ancora dolore, ancora istinto di sopravvivenza.
Sentì una scossa di perverso piacere quando una sua artigliata colpì la spalla del suo avversario, il sangue zampillò e un grido acuto uscì dalle labbra del Grifone.
Lo stesso piacere lo provò lui, forse, quando riuscì a colpirlo su un fianco, pericolosamente vicino al cuore.
Arrivarono ad un punto in cui la sfida non era più basata su chi colpiva chi, ma chi riusciva ancora ad alzarsi dopo l’ennesimo colpo dritto al cuore schivato: sapevano entrambi che chi si sarebbe arreso, avrebbe perso la partita.
Lorenzo sferrò un’altra artigliata che si andò a conficcare sull’avambraccio avversario, in un lago scuro e ferroso.
Samuel crollò in ginocchio con un gemito prolungato e lui, che aspettava una contromossa, fece un passo indietro e si mise in guardia alta.
Attese.
Tutti i rumori sembravano ovattarsi e sparire: nelle sue orecchie rimbombava il respiro affannoso e rauco, suo e dell’altro, mentre gli occhi scattavano da una parte all’altra del corpo avversario per anticipare un suo movimento.
Quando fu chiaro l’esito di quello scontro, abbassò le braccia e si prese un attimo per metabolizzare.
Non si sarebbe rialzato.
Era il momento, doveva finirlo.
Ma lo voleva?
Poi un faro nella notte:

“STA SCAPPANDO!”

Si distrasse.
Il Minotauro stava ringhiando rabbioso, gli artigli macchiati di sangue scuro furono agitati verso delle figure che riuscì a vedere solo di sfuggita prima che una fitta nebbia li inglobasse e li facesse sparire.
Si stavano dando alla fuga, il Monterumici e tutti i Grifoni.

Aspetta un attimo…

Si voltò, dove aveva lasciato Samuel e inorridì. Il vampiro sanguinolento, in procinto di morire sotto il colpo fatale dei suoi artigli, aveva lasciato il posto a una leggera nebbiolina che, man mano, scivolava via per ricongiungersi al banco che se ne stava andando verso il fiume.

“No!”

Cercò di riacciuffarlo, tirando pugni e artigliate in aria fino a fermarsi, tossendo grumi di sangue.

“MALEDETTO CODARDO!”

Era fuori di sé. Non poteva tollerare quella mancanza di rispetto, quell’affronto non solo all’Alpha, ma a tutto il branco, a quell’orgoglio che permeava ogni Selvaggio, il senso di lealtà e di giustizia su cui si era sempre fondato il loro essere vampiri.
Sferrò un colpo con gli artigli contro un tronco secco e lo trapassò.

“Fratello.”

Furente imprecava, bestemmiando ogni dio di ogni religione.

“Lorenzo!”

Si bloccò terrorizzato. Il Minotauro era al suo fianco e gli teneva fermo il braccio con una presa delicata quando ferrea, se solo avesse voluto, glielo avrebbe spezzato in due.
Lasciando placidamente la presa, si rivolse al branco e a chi era uscito sconfitto:

“Questa notte si è consumato un affronto alle tradizioni che speravo di non dover vedere; un Selvaggio ha condotto una battaglia, aizzando fratelli contro fratelli. Non dovrà mai più succedere, mai. L’errore di uno ha trascinato altri e per questo, adesso, io vi pongo una scelta.”

Si rivolse ai cinque rimasti del branco bolognese, gli sconfitti.

“Il mio branco vi accoglierà, se deciderete di abbracciarlo. Se così non fosse, pagherete con ciò che è noto dalla tradizione del Guidrigildo.”

La scelta era scontata, ma Lorenzo in quel modo capì la differenza tra un vero Alpha e uno stile Monterumici.
Possibilità di scegliere, contro furia cieca e sconclusionata.
Libertà di accettare le conseguenze e fanatismo bieco.
Una volta che i nuovi fratelli furono marchiati con il simbolo del Minotauro, Lorenzo gli si fece vicino e chiese cosa avrebbero fatto, quale sarebbe statra la prossima mossa.

“Ho provato a risolvere la faccenda come si confà a un Selvaggio: direttamente. Nonostante questo, quel cane ha dimostrato di essere meschino e codardo; a ragion di ciò sarà ripagato con la sua stessa moneta.”

Lo sguardo che gli rivolse era intriso di una furia bestiale: rabbrividì sul posto, soprendendosi di poterlo fare nonostante fosse un non morto.

“Organizzate un piano d’attacco e colpitelo nel suo rifugio: egli deve essere cenere all’alba del nuovo anno.”

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Dicembre 2017, Bergamo, Accademia dell’Ordine del Drago

Isabella passeggiava abbastanza distrattamente nel corridoio illuminato da qualche lampadina, qualcuna più fioca e qualcuna proprio fulminata.
Non volava una mosca se non qualche grido che proveniva dai sotterranei: il Comandante stava addestrando le nuove leve che sarebbero diventate, forse, i nuovi draghi rossi.
Appoggiò la mano destra sull’elsa della lama corta e la strinse. Lo faceva ogni volta, anche se non c’erano minacce nei paraggi, faceva parte degli insegnamenti del suo superiore: mai abbassare la guardia, il cambiamento è improvviso e non fa sconti, come qualsiasi nemico.
Sorrise.
Le tornò in mente uno dei tanti addestramenti che dovette affrontare, laggiù, nei sotterranei, in quella stanza polverosa dall’odore di ruggine delle lame vecchie che ornavano le pareti; quando il Comandante la spronava e la aizzava perché aveva un insano piacere nel vederla accesa di determinazione.
Si allontanò e progressivamente le voci vennero meno al suo udito.
L’atrio era ancora più desolante del corridoio, se non fosse stato per una figura minuta, con una bella giacca blu damascata e cinque libri tra le mani che ne coprivano il volto.

“Samar?”

Mezza faccia della mekhet apparve sulla destra della pila polverosa di tomi.

“Isabella…già che ci siete, mi dareste una mano? Devo riportarli in biblioteca…”

“Li avete letti tutti?”

“Riletti, per lo più.”

La Selvaggia tolse tre pezzi da quell’instabile colonna e la Crepuscolare riapparve, con una stramba macchia bluastra sullo zigomo destro.
Non era la prima volta che la vampira si presentava con macchie sulla pelle, spesso le aveva chiesto cosa fossero ma l’altra aveva liquidato tutto con uno sbrigativo: “E’ un nuovo progetto a cui sto lavorando.”
Notizie dai draghi rossi di Roma l’avevano informata che ogni tanto dallo studio della mekhet si sentissero delle esplosioni: quando accorrevano per vedere cosa fosse successo, lei usciva fuori agitando le braccia per rassicurarli e una nuova macchia azzurra.

Crepuscolari…chi li capisce è bravo.

“A Roma non dicono nulla di questi vostri spostamenti continui?”

Samar scrollò le spalle.

“Sto lavorando per l’Ordine e per la mia Loggia” affermò “Il Prorettore ne è a conoscenza e questo basta.

“E il vostro maestro?”

Non si udì risposta. Sapeva, sempre per via delle notizie da parte dei suoi colleghi draghi rossi dell’Accademia romana, che i rapporti tra i due non erano buoni da qualche tempo. A dire il vero se si potesse descrivere con una parola, quella più azzeccata sarebbe “altalenante”.
A momenti si amavano e non c’era volta in cui Samar non era a fianco del suo maestro, altri invece lei gli lanciava occhiatacce, sbuffava quando lo vedeva e lui semplicemente la ignorava.
Erano complicati, quei due.

“Voi invece cosa mi dite del Monterumici? Ho saputo di un bel colpo di stato da parte di un Ventrue.”

Isabella sospirò arrendevolmente: c’era qualcosa che i mekhet non sapevano?
A Bologna, dopo mesi in cui il Principe Selvaggio aveva guadagnato più dissensi che consensi non solo nel suo branco, ma anche nel Primo Stato, era soffiato forte il vento del cambiamento e con un colpo da maestro, Abel Caracciolo si era dichiarato Principe, riscuotendo l’appoggio di tre quarti della cittadinanza.

“Si darà alla macchia, probabilmente.”

Non era un’ipotesi da scartare, visto ciò che era successo nel Guidrigildo ma secondo gli ordini del Minotauro, doveva morire ad anno nuovo, magari prima del prossimo eliseo.
I Gangrel si erano mossi sinergicamente e tramite una rete di contatti erano riusciti a individuare il rifugio del reietto, in una caserma militare fuori dal capoluogo di regione.

“Alla macchia…già…”

Perché, perché aveva l’idea che sapesse anche questo?
E se alcuni Selvaggi si fossero appoggiati ai Mekhet per avere quel tipo d’informazione?

D’altronde sono i mercanti d’informazioni…le ombre…

Decise che era meglio non saperlo. Il fatto che anche i draghi neri, che si occupavano delle questioni politiche e agganci vari, avessero dato la direttiva di mantenere Abel come Principe significava sostanzialmente due cose: c’erano dei grossi vantaggi per l’Ordine del Drago e qualsiasi minaccia alla reggenza del Ventrue doveva essere eliminata.
Quindi pure il Monterumici.
Una volta tanto, poteva agire per il bene del clan e della congrega senza dover scegliere tra l’uno e l’altra.

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Gennaio 2018, Caserma militare di Bologna, ore 6,30

Lorenzo stava appostato su un albero, disarmato e completamente nudo, quando vide un uomo arrivare nel piazzale della caserma.
Già, la forma animale, nonostante gli avesse permesso di entrare – o meglio, sorvolare – il controllo all’ingresso, aveva una piccola pecca: squarciava i vestiti.
La sua fortuna era che il buio rendesse la sua figura celata alla vista, anche se probabilmente avrebbe fatto gioire qualche recluta in astinenza: per un attimo pensò a come potesse essere farsi una donna chiusa in una caserma, poi rifletté sul fatto che il periodo in cui le femmine non copulavano prima del matrimonio era bell’e finito. Con una smorfia di disappunto bofonchiò qualcosa sulla falsa riga del “si stava meglio quando si stava peggio” e tornò a guardare l’uomo che si stava avvicinando alla macchina di fronte all’ingresso.
Era il capo ufficiale, una faccia già nota che spesso andava e veniva dalla caserma: ormai Lorenzo era lì da un paio di notti e poteva affermare che quell’umano di mezza età si presentava lì più o meno alla stessa ora, per poi andarsene prima del sorgere del sole cosa che, effettivamente, si stava verificando come da copione.
Il piano originario era che lui avrebbe dovuto carpire più informazioni possibili del rifugio del Monterumici, dove dormiva, quanta sicurezza c’era, vie di fuga e tutto ciò che poteva essere utile ai suoi compagni per organizzare l’assalto che doveva avvenire nel giro di poco, altrimenti il Minotauro si sarebbe incazzato.
Quella notte sarebbe entrato per un giro di ricognizione molto veloce; l’orario era stato scelto appositamente per evitare di trovare il Selvaggio sveglio ed essere scoperto.
Doveva fare in fretta, però: il sole sarebbe sorto a breve e nonostante fosse molto veloce e ci fosse il suo seguace ad attenderlo con un’auto blindata al ciglio della strada, c’era il rischio che non ce la facesse.

Così iniziò la mutazione e le sue forme umane iniziarono a dissolversi fin quando della sua figura non rimase altro che una nebbiolina poco densa.
Il capo ufficiale intanto stava aprendo la porta d’ingresso e tra le mani aveva due taniche verde petrolio.
Non s’interessò di sapere cosa vi fosse dentro, ciò che gli importava era capire più cose possibili e soprattutto individuare dove dormisse il Monterumici.
L’atrio era spazioso e con una sicurezza nella norma: c’era un paio di soldati armati, ma niente di assurdo e d’inoppugnabile.
Mentre l’uomo scendeva le scale che conducevano, presumibilmente, ai piani sotterranei, Lorenzo lo seguì scivolando a distanza sopra di lui, attaccato al soffitto.
Il corridoio che gli si presentò aveva quattro porte per lato e non c’era alcuna guardia, sembrava un archivio.
Il capo ufficiale andò dritto verso una delle stanze, la quarta sulla destra: Lorenzo invece si mise a fare il suo lavoro, controllando la prima stanza.
Quando uscì dalla terza, uno sgabuzzino minuscolo e claustrofobico, vide qualcosa che attirò la sua attenzione e soprattutto, sentì un ringhio familiare.
La quarta porta in fondo, verso cui si era diretto l’umano, era aperta e irradiava una luce calda e tremolante.
Come le fiamme di un fuoco.

“MI HAI…TRADITO!” gridò qualcuno.

Poi il silenzio. La luce divenne sempre più fioca, fin quando non scomparve.
Era certo di averla riconosciuta quella voce, era certo che…
Si stava facendo l’alba: doveva fuggire.

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Febbraio 2017, al confine tra l’Emilia Romagna e la Lombardia.

Lorenzo fissò a lungo Samuel, senza dire nulla.
Le ferite che gli aveva inflitto quella notte di novembre erano scomparse e sul suo volto ora troneggiava il simbolo del Toro, dipinto con inchiostro bianco.
Il branco del Minotauro, finalmente, era stato riunito e lui, al centro di quel grande cerchio di Selvaggi, era fiero e raggiante. Gli occhi d’onice carezzavano tutti orgogliosamente e per ognuno aveva una parola incoraggiante per la nuova fratellanza riunita, nulla, neanche i licantropi l’avrebbe divisa.
Eppure lui non riusciva a guardare Samuel come prima, non dopo quella notte in cui, su quel terreno erboso, si erano scontrati all’ultimo sangue, estraendo gli artigli e lottando per l’esistenza.
Tutti i Grifoni, dopo la dipartita del loro leader, si erano inginocchiati al vero Alpha che, magnanimo, li aveva accolti, cosa che non comprendeva e che non avrebbe fatto.

“Sei giovane, Lorenzo”  gli aveva detto Efesto, come ogni volta in cui doveva dargli torto ma non trovava la motivazione.

Una cosa era certa, però: quella notte lui aveva sentito bene, Monterumici era stato ucciso con il fuoco, dal suo capo ufficiale, che poi è stato scoperto essere suo amante.
Eppure c’era una semplice domanda che Lorenzo si era posto e che ancora non aveva trovato una risposta esaustiva:

Perché quell’uomo ,suo amante e seguace, avrebbe voluto ucciderlo?