FACILIS DESCENSUM AVERNI – 04 – Spezzando un limite

Benvenuti o bentornati! Quest’anno, per la collaborazione tra le due associazioni Camarilla Italia e Torre Nera, vi propongo un progetto di una storia a puntate, iniziata a gennaio, libera interpretazione delle tematiche del Mondo di Tenebra (ambientazione di alcuni dei giochi di ruolo della casa editrice White Wolf).

Un esperimento, anche per me, che spero possa intrattenere.

Buona lettura!

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Sospiro, allungo il braccio e apro la mano. Sul palmo è appoggiato ciò che mi salverà dalla pazzia. Il foglietto mi solletica leggermente la pelle: leggero come una piuma, pesante come l’attesa della gratificazione. Mi inginocchio, tenendo il braccio alzato. Quasi mi trascino, avanzando a carponi, fregandomene dell’umiliazione.

A che serve la dignità, quando la tua vita appartiene a qualcun altro. Tanto vale non pensarci e ingoiare tutto, insieme all’aria e alla saliva. Lo stomaco si gonfia del nulla, come le vene che scoppiano di desiderio.

L’ho visto sul dorso delle mani, perché le maniche non possono coprire del tutto le prove del peccato. Ancora non mi è chiaro chi sia il peccatore.

La mano protesa trema, sollevata nel vuoto. Davanti, lui si muove lentamente. Anche così sa che riesce a torturarmi, mi sforzo di rimanere immobile e di non pensare ai molteplici modi in cui potrei saltargli addosso. Ma quando si avvicina e le sue dita si posano sul pezzo di carta ripiegato, i sensi si accendono, infiammati e concentrati. Lo guardo negli occhi, non mi osserva. Non fa nulla per instaurare un contatto con me, pochi millimetri ci separano.

Afferra l’informazione e la snuda, senza rendermi partecipe. Vedo un guizzo per un istante, negli occhi ambrati che scrutano il mondo dall’alto in basso. Non so perché mi accorgo del colore delle iridi, sarà che sono diverse notti che non vuole un incontro con me e devo aggrapparmi a qualcosa di fisico per non dimenticarmi chi lui sia.

La notte in cui tutto cambiò, furono i denti a risaltare, brillanti nell’oscurità.

Ma non ho davvero bisogno di capire una consapevolezza scomoda giunta da un lampo d’improvvisa lucidità. Voglio affogare nel rosso. Vedere le vene scoppiare, straripanti oltre il limite.

Striscio, gli sfioro un piede, inspiro il profumo delle caviglie, azzardo ad afferrarle per risalire. Di scatto mi spoglio della felpa e cerco di tirarmi su artigliando il corpo statuario.
Io sono più giovane di lui, ma la mia carne è più martoriata. Su di me spiccano in rilievo le cicatrici di ore passate in solitudine a combattere l’astinenza, mordendomi e graffiandomi, invano. Le unghie sono sbriciolate ormai da tempo. Il prurito del dolore, però, non va mai via, nonostante le ferite più profonde si aprano e si richiudano costantemente, in attesa di vomitare la sofferenza e la pazzia su ciò che non può essere svelato alla luce del sole.

Ora ho la possibilità di rimarginare per un po’ il cuore. Almeno così credo, perché il suo comportamento mi lascia pensare di avere di nuovo il controllo sulla fame. Ma l’illusione infine arriva dritta alla mia mente, come il calcio in faccia che mi riporta con il culo e le speranze a terra.

Sorride, sprezzante. Gli occhi adesso divertiti.

No. Non è vero. Cazzo, non così. Non farmi implorare…

Ne ho bisogno…

Non posso andare oltre. Non ci riesco… non ci riesco…

Mi ero dimenticato non solo del suo aspetto, ma di quanto lui fosse metodico. Ha tutto il tempo per ragionare e pianificare la tortura successiva senza che io possa oppormi. Sa benissimo che, purtroppo, quel limite potrò sempre superarlo. C’è qualcosa, in me, che nonostante mi faccia sentire le ossa rotte e la bocca arida per la carenza, mi fa resistere, sempre di più. Ci ho messo diverso tempo per capirlo, accorgendomi solo ad un dato punto che il periodo tra una crisi e l’altra era sempre più prolungato, come l’odio e la nausea.

Questo fa di me un essere sempre più irrazionale. Eseguo gli ordini solo per arrivare a quegli unici momenti d’estasi in cui le gocce rosse scivolano brucianti dall’esofago in ogni organo. Una violenza che non ci si può aspettare da qualcosa di così piccolo.

Ci guardiamo a vicenda, ma non negli occhi. Ripercorriamo ogni momento in cui ci siamo ritrovati in quella stessa situazione, tra pugni e calci, resistenza e ribellione; ricordiamo i corpi afferrarsi e la mia bocca chiudersi nella sua carne. I pugni sulla schiena, il respiro mozzato e i gemiti di entrambi, per scopi totalmente differenti. Non esiste lo scambio di favori in quell’atto, lì il male lo si vuole egoisticamente per sé, perché condividerlo significherebbe rinunciare ad una parte di esso.

Non posso sprecarlo, nemmeno per lui.

Ma di nuovo, come dicevo, sono solo immagini nella mia testa. Per questo, rimango sul pavimento gelido, lentamente mi rannicchio in una posizione fetale.

Madre, perché mi hai estratto dal tuo grembo?

Adesso, non sarei qui.

Mi copro il volto per non lasciare intravedere l’ennesima sconfitta. Non esiste.

Stiamo zitti per minuti interminabili. Io metabolizzo ancora una volta quello schifo, in un tempo inversamente proporzionale all’agonia del corpo. Lui sta pensando ad altro, sospira.

Sciorina in breve quello che dovrò fare prossimamente.

Mi devo sforzare di annuire, pena un dolore ancora più acuto.

Poi lui abbandona la stanza, abbandona me. E tutto sparisce in un lago di finto rosso.

 

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Tiziana Valentino

Gruppo letterario Camarilla Italia

www.camarillaitalia.com