Buonasera!
Come sempre torna l’appuntamento narrativo per illustrare l’ambientazione di un gioco di ruolo live legato a Vampire The Requiem, con i suoi intrighi e le sue vicende politiche ed esoteriche!
Questo mese, continuando la storia di cui ho parlato precedentemente, affronteremo di nuovo le vicende dei gemelli Marinus, impegnati nella ricerca di vendetta ai danni dell’ormai fuori di senno Principe di Bologna, supportati dall’intrigante sorella, la sciamana Kaine Caracciolo.
Se vi siete persi la prima parte, vi invito ad andare a cercarla e…buona lettura!
Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com
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Eliseo di Settembre 2020, Roma, Mausoleo di Santa Costanza
“Sono diversi mesi che non vi facevate vedere”
Kaine scrollò le spalle. Da quando c’era stata la questione di Lucrezia D’Angiò, la città eterna era uscita dai suoi interessi e più sottilmente anche le manovre del Gerofante Vaccaro con la prodigiosa ragazzina.
L’avrebbe riconsegnata in cenere al De’ Ricci lei stessa se lui non si fosse messo nel mezzo, invaghito forse dall’aspetto mansueto e fragile che la nuova megerita aveva: in ogni caso a lei non aveva mai convinto e, seppur Lucrezia si fosse dimostrata effettivamente fedele al Circolo, nel suo piccolo covava del sano sospetto.
“Altri impegni mi hanno tenuta a Bologna.”
Fece un sorriso tirato. Vaccaro oggi puzzava più del solito, che si fosse rotolato nel fango prima dell’eliseo?
Da un Gangrel se lo sarebbe potuto anche aspettare.
Arricciò il naso e captò un odore di cipria e profumo dolciastro sulla sua destra. Due Daeva la sorpassarono, una non sapeva chi fosse ma l’altra ogni tanto era apparsa a Bologna, se non errava era Ailide Beccaria, Gran ‘qualcosa’ di ‘qualcos’altro’ a cui non aveva prestato interesse alcuno.
Goffredo abbozzò un saluto cordiale, che nel suo caso era un informalissimo “lunga notte” decisamente fuori dalle mille regole di etichetta da Primo Stato, tant’è che ricevette una risposta fredda dall’altra Succube, mentre Ailide gli sorrise educatamente.
Doveva ammetterlo, rispetto a tutti gli Invincibili, quella Daeva si rivolgeva sempre in modo cordiale a chi era gente del Terzo Stato come lei o Goffredo. L’altra che la accompagnava invece era la classica nobilotta di merda che squadrava dall’alto in basso chiunque fosse fuori dall’Invictus.
“Quella Sveva Barberini è sempre uno zuccherino” borbottò ghignando Vaccaro per poi indicare Ailide con un cenno “E quella…?”
“Ailide Beccaria. Pezzo abbastanza importante di Milano, nonché punta di diamante dell’arsenale dello Sforza.”
“Ah, hai capito il vecchio…”
“Nah, non è quello che pensi tu. O almeno, non credo.”
Non aveva mai compreso il rapporto che c’era tra Ludovico Sforza e la giovane Beccaria, tuttavia era certa che il vecchio vampiro fosse molto premuroso nei suoi confronti. Ogni volta che le capitava di vederli a Bologna o a Milano, Kaine aveva sempre lo stesso pensiero: quelli che lo Sforza rivolgeva all’altra non erano occhi di cupidigia.
Ormai aveva una certa esperienza per quel tipo di sguardo, tant’è che sapeva captarlo immediatamente alla prima occhiata, come un falco.
Per un attimo le apparvero i profondi occhi cerulei di Abel, carichi di quella passione che aveva imparato a conoscere, apprezzare e sfruttare; ora che le veniva in mente quel tipo di sguardo non lo vedeva più da tempo e quella consapevolezza fece stringere una mano invisibile attorno allo stomaco.
Suo fratello era perduto, doveva farsene una ragione.
La pazzia lo aveva talmente corroso che le sue sporadiche apparizioni erano all’insegna del grottesco e riecheggiavano in tutta la penisola.
“Era questione di tempo” le aveva detto uno dei due gemelli Marinus “Gli anziani dei casati Invictus sono stati anche fin troppo pazienti con lui.”
Poteva controbattere? No. Non si sentiva neanche di farlo a dire il vero, che Abel fosse completamente fuori di senno era un dato di fatto che aveva sperimentato sulla sua pelle più e più volte.
Vaccaro nel mentre stava uscendo. La sua figura tarchiata e sudicia, assieme all’odore, sgusciò fuori dalla sala dell’eliseo, probabilmente convocata a presenziare a una riunione di Selvaggi nel cortile.
Quello era il momento perfetto per fare ciò per cui si era spostata dal suo rifugio a Bologna, l’unico vero motivo che l’aveva portata a scendere nella città eterna.
Fece aleggiare lo sguardo lungo tutta l’area del Mausoleo, inspirando ed espirando seccata. A quanto pare molti dannati erano usciti perché la stanza sembrava deserta, se non per alcune presenze nascoste dalle nicchie infossate nel muro di mattoncini. Kaine riusciva a vederne le ombre tremolanti proiettate dalle candele, probabilmente messe in basso perché le figure erano grottescamente enormi. Non si concentrò su chi stesse confabulando in modo così concitato da muoversi gesticolando, al momento lei era interessata a trovare qualcun altro. Gli occhi scuri si spostarono sull’altare, dove due ceri emanavano un denso fumo che risaliva vorticando verso l’alto e anche lei, per qualche istante, si concentrò sui lucernari che riflettevano il buio di una notte senza stelle.
Senz’altro quel posto, con la luce del sole, doveva essere luminosissimo.
Chissà com’era, il sole, lo aveva quasi dimenticato.
Una sensazione di fastidio le pizzicò le guance. Kaine sbatté gli occhi e li strinse, donando un’occhiata selvatica alla stanza e al colonnato circolare che divideva l’altare dal resto del Mausoleo.
Hulio Marinus sembrava aspettarla. Se ne stava a braccia conserte, attaccato a una colonna, abbastanza illuminato da poter essere visto, seppur una porzione del suo viso fosse nascosta dalla penombra. Eppure, nonostante una fetta di oscurità gli avesse rubato la parte destra dell’ovale, era chiaro che sulle labbra avesse un sorrisetto che la invitava ad avvicinarsi.
Kaine si guardò intorno e constatò che tutti i presenti erano troppo impegnati nelle loro conversazioni per curarsi della Gerofante di Bologna che andava a chiacchierare con un Cavaliere della Ghirlanda Spinosa, per cui attraversò diagonalmente lo spazio che la divideva da lui e lo raggiunse, venendo illuminata dal bagliore fioco dei ceri vicino all’altare.
“Kaine” l’apostrofò “Potevate rasentare il muro per destare meno attenzioni.”
“Quello lo fate voi Mekhet, io sono una Regina.”
L’altro sorrise, annuendo. Rispetto al fratello, Hulio si poteva considerare l’affabile, lo scherzoso, quello con cui si sarebbe potuta infrangere qualche norma di etichetta senza rischiare la filippica da nobilotti su quanto fosse ‘bello e sfavillante’ comportarsi dignitosamente senza alzare il mignolo mentre si beveva una tazzina di zero negativo del 2014.
La condusse in una stanza spoglia, con muffa agli angoli dei muri e travi gonfie di umidità. L’eliseo quella notte era ospitato dal clan dei Nosferatu e tutto sommato il posto era sicuramente meglio delle fogne dove quei ratti erano abituati a vivere, per cui la presenza di qualche pecca passava in secondo piano.
Hulio si strinse nelle spalle, commentando con una sottile punta di disprezzo la scelta del luogo, anche se lei era consapevole che in realtà l’invettiva era tutta mirata agli Spettri, da sempre rivali delle Ombre.
“Tuo fratello?”
“Altre incombenze. Diciamo che io lavoro qui con te e lui altrove con qualcun altro.”
Plausibile. La questione di Abel aveva radunato diversi invincibili da tutta Italia e, da quel che ne sapeva, i Marinus erano i due generali che monitoravano tutta la faccenda. Certo, le sarebbe piaciuto sapere chi altri fosse coinvolto, ma Juan era stato molto chiaro: doveva saperne il meno possibile.
Anche questa era una mossa intelligente, tuttavia Kaine era certa che a lei fosse riservato un trattamento particolare per la sua relazione con Abel. I due gemelli non si fidavano e a dirla tutta lei non poteva biasimarli, seppur questa segretezza stava cominciando a darle sui nervi.
Hulio si guardò intorno esaminando attentamente la stanza. Una volta sinceratosi che erano veramente soli, iniziò a dire:
“Abbiamo verificato il luogo che ci hai detto.”
A Kaine venne su un insulto, che trattenne a fatica. C’era anche bisogno di controllare?
Sono anni che conosco quel posto. Anni!
“Ci hai detto la verità. Abel dorme effettivamente in quel posto, con un livello di sicurezza abbastanza alto ma non tanto quanto ci aspettavamo.”
La faccenda della sicurezza era stata teatro di una discussione tra lei e il fratello che si era accesa nel giro di poco, anche se la megerita non aveva compreso il motivo di tanto fervore: cosa c’era di sbagliato nel erigere un muro spesso per proteggersi dal mondo esterno? La sua sicurezza era modesta, soprattutto se si parlava di un Principe. Abel però non aveva sentito ragioni e si era rifiutato di ascoltarla perché lei “non poteva capire”.
Sì appunto, non aveva capito allora, e non capiva neanche in quel momento.
“Saremo pronti a colpire tra un paio di settimane, un mese se le cose si mettono male.”
“Fatemelo sapere per tempo.”
Hulio la guardò serio, i grandi occhi neri nei suoi altrettanto scuri.
“Sapete il vostro compito?”
“Sì.” Kaine sbuffò. Queste domande la irritavano, o più precisamente l’allusione velata che nascondevano. “Supporto esoterico. Io e Selene saremo lì: mi pare di capire che voi due ve la intendiate.”
L’angolo della bocca del Marinus si piegò in una smorfia.
Centro.
“Non mi sorprende, tra Mekhet è quasi normale. Quasi vi invidio, Marinus.”
“La fratellanza non è cosa conosciuta nel clan Ventrue?”
Kaine rise amaramente.
“Due ombre possono fondersi e crearne una più grande, ma secondo voi, due re riescono a fare la stessa cosa?”
Hulio annuì e le sorrise, affabile, senza dire una parola.
A lei però non serviva una risposta, la conosceva già.
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Qualche giorno dopo, rifugio dei fratelli Marinus.
Le dita di Juan picchiettavano forsennatamente la tastiera di un laptop, la cui luce gli irradiava il volto e si rifletteva nei suoi occhi neri come la pece.
Ogni tanto si fermava a riflettere, poi riprendeva, quasi come se le parole fluissero dai polpastrelli, fondendosi con l’apparecchio. Dopo l’ennesima pausa, un secco ‘tac’ decretò la fine della lunga mail che aveva scritto per Giulia Geremei, detta anche la ‘molto ambiziosa’, per motivi abbastanza palesi.
Tra tutti gli alleati quella vampira con l’aspetto di una donna sulla trentina era la più fervida e devota, tanto da desiderare ardentemente la fine di Abel Caracciolo, forse ancor di più degli stessi Mallari, i mandanti di tutta la faccenda.
Juan si stiracchiò la schiena stendendo le braccia verso l’alto, poggiandosi sullo schienale. Il patriarca della famiglia Mallari era stato molto chiaro, il Caracciolo doveva gentilmente sparire dalle scene per un po’, magari una cinquantina d’anni: sarebbero stati sufficienti, forse, a fargli tornare un po’ di sale in zucca.
Contessina, la sua cara moglie, non poteva essere associata a uno squilibrato del genere, doveva essere ricollocata immediatamente, sempre a guidare i domini di Bologna e Modena, così come era scritto da generazioni.
Era stata un’occasione ghiotta, Juan lo aveva capito immediatamente. Aveva anche inteso le sottili allusioni che il vecchio Mallari aveva lasciato sospese riguardo il torneo per la mano della figlia: il casato sapeva che era stato ricattato e sapeva pure che né lui, né Hulio, l’avevano presa bene.
Quei grassoni avevano giocato con il loro desiderio di vendetta, che seppur nascosto, non si era mai estinto. Non erano servite neanche le garbate pressioni dal patriarca del casato Marinus per fargli accettare la proposta, e subito si era messo all’opera assieme al fratello.
Un rumore gli fece alzare lo sguardo dallo schermo, per poter incontrare la figura longilinea del gemello varcare la soglia della sua stanza.
“Novità?”
“Ho scritto a Giulia Geremei. Gustavo Mallari si è già mosso, buona parte dell’Invictus di Bologna è dalla nostra.”
Hulio si stravaccò supino sul letto e i ricci folti seguirono il movimento dall’alto verso il basso, ricadendo soffici sul materasso.
“Abbiamo anche Colonna” continuò Juan “E tutta la Ghirlanda Spinosa.”
“Anche Sforza?!” il gemello si drizzò a sedere “Anche quel dinosauro ha deciso di uscire dal suo mondo fatto di scoregge profumate?!”
“Smettila di parlare così del Gran Maestro.”
Lo vide roteare gli occhi, i suoi stessi occhi. A volte, guardandolo, Juan pensava di essere fortunato rispetto a tutti gli altri dannati, perché poteva guardarsi allo specchio nonostante fosse un non-morto. A volte invece voleva solo essere diverso, Juan Marinus e basta.
Si passò una mano sul cranio e i polpastrelli furono accarezzati dai capelli radi che aveva tagliato qualche ora prima. Nel giro di ventiquattr’ore gli sarebbero ricresciuti, ma a lui non importava: prendeva il rasoio e lasciava che le ciocche cadessero nel lavandino, fin quando non si formava un piccolo cumulo di cenere.
Anche Hulio portava buone notizie, tutto sommato. All’eliseo romano aveva parlato con Kaine e insieme si erano concordati per le prossime mosse. Il coinvolgimento di Selene, la piccola mekhet abile a passare del tutto inosservata, non gli sembrò una brutta idea: era un’Ombra ed era in gamba, tra tutti gli assistenti la Caracciolo non poteva sceglierne una migliore.
Curioso invece era Ettore Crisafi: perché mai aveva accettato di prender parte alla spedizione? Hulio doveva avergli promesso qualcosa. A Juan la cosa non piaceva, tuttavia anche in questo caso poteva chiudere un occhio per l’appartenenza comune al clan delle Ombre, senza considerare che Ettore avrebbe potuto muovere le forze del Movimento Carthiano che, per quanto caotico, era comunque fanteria di prima linea da mandare al macello.
Era ormai tutto pronto o quasi, i motori si stavano scaldando e presto sarebbero partiti tutti per Bologna, prima gli alleati, poi i non Invictus ed infine loro. Kaine avrebbe monitorato le mosse di Abel, monitorata a sua volta dalla Geremei e il Mallari: ogni pezzo era stato incastrato per combaciare, non erano ammessi errori.
Juan sorrise. Per portare in torpore il Principe aveva scelto un paletto con un’impugnatura intarsiata, con il pomolo ingioiellato da una pietra d’onice.
Non lo aveva specificato, ma gli sembrava scontato che fosse dato a lui l’onore di spingere il legno nelle carni pallide di Abel, raggiungendo il cuore atrofizzato.
Lo avrebbe fatto lui, non avrebbe ammesso repliche…neanche da suo fratello.
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Bologna, rifugio condiviso del Circolo della Megera.
C’era odore di pino e abete nella sua stanza, colpiva immediatamente le narici non appena si varcava la soglia, oltre al cerchio di sale e gesso dipinto per terra. Alcuni inservienti stavano curando gli incensi, manovrando piccole fiammelle come una tranquillità che le metteva i brividi. Una sola stilla di quel veleno e quelli come lei si sarebbero ridotti in cenere.
La Gerofante, in piedi in un angolo, stava osservando le mosse dei suoi servi, con quello sguardo che qualcuno aveva simpaticamente descritto come quello di una belva.
Una sinuosa, selvaggia e pericolosa pantera, pensò, mentre studiava il profilo della Ventrue.
Aveva conosciuto anche l’altro Gerofante prima di lei, Niccolò Castracani, ma la fermezza di quella donna dalla pelle d’ebano rimaneva imbattuta. Se lui era talvolta preso dalle sue passioni che gli facevano perdere la via, lei era stoica e inflessibile, a volte talmente lucida che si chiedeva se fosse davvero una Regina, una dannata destinata a perdere il senno come tutti quelli come lei.
Sarà curioso vederti impazzire.
No, non avrebbe mai raggiunto i livelli del fratello. L’orgoglio l’avrebbe divorata prima e si sarebbe trafitta il cuore con un paletto lei stessa, prima di donare al mondo una visione della sua follia.
La guardò sul volto dai lineamenti duri e spigolosi, degni di una scultura.
Davvero avrebbe permesso che suo fratello fosse messo in torpore?
Hulio non era convinto. Rispetto a Juan era molto più sospettoso, nonostante lo nascondesse bene dietro un atteggiamento a tratti fanciullesco.
Ed eccola qui, dunque, a sorvegliare ogni notte le mosse della Gerofante Kaine.
“Selenia”
Sbagliava sempre il suo nome. Aveva rinunciato a correggerla: tutto sommato Selenia non era neanche così male.
Le si avvicinò, in attesa. La sua pelle odorava di mandorle dolci ed era leggermente lucida.
“Assistimi durante il rituale.”
“È necessario farlo?”
La Ventrue mandò via gli inservienti con un cenno della mano. Quando la porta si chiuse e il silenzio le avvolse assieme ai fumi degli incensi di pino e abete, le rispose:
“Interrogare la Madre è sempre necessario.”
Selene tacque. Un sottile dubbio si insinuò nella sua mente, ma lo tenne a bada.
Si mise di fianco al cerchio, mentre Kaine prendeva una coppa e un pugnale sacrificale, dalla lama incisa di rune che non conosceva.
Sapeva che la Gerofante proveniva dall’Africa e che laggiù aveva appreso ciò che sapeva da sciamani: era unica nel suo genere, nessun’altro megerita poteva vantare della sua stessa conoscenza e abilità.
In ginocchio, di fronte a uno degli incensi posti al centro del cerchio, Kaine stava raccogliendo il fumo per poi portarselo al viso e lo inspirava a pieni polmoni. Pian piano una lenta nenia in una lingua strana si levò nella stanza, bassa quasi quanto un mormorio, che si concluse con quella che sembrava un’invocazione verso la Madre.
Kaine prese il pugnale e si recise il polso. Sangue denso scivolò sulla pelle e iniziò a gocciolare dentro la coppa, mentre la nenia continuava, bassa e lenta.
Selene annuì: aveva capito che rituale era. Ogni officiante aveva la sua modalità di interpretare i poteri di Cruàc, la magia dei megeriti, ma sostanzialmente il succo di ogni rituale era sempre lo stesso per tutti. In quel caso, la Gerofante aveva interrogato la Madre su qualcosa e questa avrebbe palesato la sua risposta, affermativa o negativa, attraverso il sangue.
Dopo aver bevuto dal calice, Kaine rimase in silenzio con gli occhi chiusi.
Poi, improvvisamente, il suo corpo fu scosso da sussulti. Un rumore gorgogliante le uscì dalla gola, mentre le mani andavano ad artigliarsi il collo, all’altezza della carotide.
Selene fece per muoversi, ma un secco ‘no’, detto tra gli spasmi, la pietrificò sul posto.
Kaine si piegò in avanti e vomitò. Il sangue che aveva bevuto poco fa si riversò sul pavimento, nero e bollente, sfrigolando sulla pietra ed emanando un odore nauseabondo.
Non sapeva cosa aveva chiesto, ma la Madre aveva parlato.
E non aveva detto niente di buono.
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Una settimana dopo, Roma.
Era abbastanza a disagio, lì, seduta sulla poltrona, con le mani sul grembo a stritolarsi la gonna.
La cosa lo straniva: non era abituata allo sfarzo di Abel?
Eppure non si erano incontrati in un palazzo: era semplicemente la sede di una banca, più precisamente negli uffici del dirigente, un suo servitore da praticamente sempre, si sarebbe potuto dire che il culo su quella poltrona ce l’aveva grazie alle sue influenze.
“Dunque, mi avete contattato di tutta fretta.”
No, c’era qualcosa di diverso in lei. Non poteva essere solo il disagio della ricchezza, di un mondo a lei totalmente estraneo, Kaine era turbata da qualcosa, talmente tanto da non riuscire a stare ferma. Juan inarcò un sopracciglio e lanciò un’occhiata al fratello, in piedi accanto a lui. Lo aveva notato anche lui? Chi avrebbe potuto dirlo. Hulio sorrideva affabile come al solito, senza lasciar trapelare alcunché.
“Dobbiamo interrompere tutto.”
Fu un po’ come uno scoppio di un petardo, irruento e secco. Juan inarcò un sopracciglio mentre il fratello sorrideva ancora e cercava di comprendere, facendo domande cordiali.
Diamine.
Strinse un pugno sotto il tavolo, sforzandosi di rimanere una maschera di cera impassibile.
Mi sembrava troppo convinta per essere vero.
Kaine stava farneticando qualcosa sulla fantomatica divinità venerata dal branco di straccioni megeriti, la ‘Madre’, che aveva ‘parlato’ tramite una stregoneria tipica del Circolo, che si era ‘espressa’ in modo negativo, che tutta la questione era pericolosa, ma quando Hulio cercava di avere più risposte, la Gerofante bolognese rispondeva di non sapere altro, che i ‘rituali non davano risposte articolate’.
Che cazzate.
Sospirò, esasperato.
“A me sembra che sia una scusa, la vostra” intrecciò le dita sul tavolo e si sporse leggermente in avanti, guardandola intensamente negli occhi. Un ringhio basso risuonò nella gola di Kaine, mentre i suoi occhi lo trafiggevano come artigli.
“Abbiamo l’esercito più grande di tutta Italia impegnato in questa crociata. Invincibili, Carthiani, anche qualche Santificato e un’orda di mekhet sono pronti ad attaccare.”
“Non sottovalutate ciò che la Madre ha detto…”
“Abel può essere anche una minaccia, ma cosa potrà mai fare contro almeno due centinaia di forze messe in campo?”
Fece un sorrisetto compiaciuto. Kaine non replicò, sintomo della sua vittoria nella discussione.
È ora che sappiate cosa significano i vostri giochetti, stregoni del cazzo.
Staccò una foglia della pianta da ufficio posta all’angolo della scrivania e, con lentezza, la ridusse in pezzi.
Nulla può contro la presenza militare. Nulla può contro l’Invictus…nulla può contro Juan Marinus.
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Contemporaneamente, al rifugio personale di Abel Caracciolo.
C’era puzza di sangue e urina nella sua stanza. Storceva il naso ogni volta che per sbaglio ne inspirava l’olezzo, ma non si azzardava ad alzarsi dal grosso letto di mogano con intarsi e arabeschi. Non era solo, lo sapeva. Insieme al connubio di cattivi odori, c’era il sudore acre di un ragazzino di poco più di vent’anni, il quale probabilmente era ancora steso sul pavimento a leccarsi le ferite.
Il suo cuore, il suo inutile cuore mortale, pulsava freneticamente, in preda a una leggera tachicardia e il fluire del sangue nelle sue vene era diventato più rapido, così come i respiri strozzati.
Abel sospirò annoiato.
“Christopher! Jacob!”
Due pallidi Hostewicks comparvero sulla soglia, muti e con il capo chino. Il Principe sondò le loro reazioni con occhio indagatore, ma i due ghoul servitori non batterono ciglio alla vista di uno di loro nudo e pestato abbastanza da avere diverse tumefazioni.
“Portatelo via. E che il prossimo sia degno di personificare un rampollo Invictus!”
Massì, i suoi servi non avrebbero mai alzato la testa per proferire verbo contro di lui. Erano fedeli e quieti come cani obbedienti, talmente tanto che si facevano pure bastonare per poi tornare alla mano del padrone.
E poi, cosa stava facendo di sbagliato? Lui era il Principe di Bologna. Qualsiasi cosa gli era dovuta, senza eccezioni.
Scostò le coperte e si alzò, trattenendo un’imprecazione. Quel sudicio Hostewick gli aveva sporcato il pavimento, oltre ad avergli appestato la stanza con la sua maleodorante essenza.
Lo specchio a parete lo accolse senza rifletterlo. Abel guardò la sua sagoma mancante, immaginando il suo volto pallido e angelico, gli occhi cerulei e i capelli, il corpo tonico anche se non muscoloso e completamente nudo.
Quando sulla superficie riflettente vide il suo più fidato servo, Edgar, il dannato allargò appena le braccia, in attesa. Con una rapidità sorprendente, il tocco leggero della seta dorata della sua vestaglia lo avvolse, cingendogli la vita con un nastro annodato sul davanti.
Edgar gli sussurrò qualcosa all’orecchio che lo fece sorridere. Lo congedò dandogli un ordine e il vecchio Hostewick lo lasciò solo con un inchino.
Dopo essersi appuntato una spilla a forma di ragno all’altezza del petto, anche Abel lasciò la sua stanza, scendendo a piedi nudi le scale della sua villa. Dal salone sentiva un leggero cicaleggio, misto a gridolini di stupore e mormorii estasiati, che lo fecero sorridere ancora di più.
Due ragazze, palesemente turiste, si guardavano intorno come si sarebbe potuto fare in un museo. Abel le soppesò entrambe con gli occhi, notando la loro giovinezza e il candore della pelle che quasi le faceva somigliare a un dannato.
Probabilmente invece erano delle regioni nordeuropee, cosa avvalorata anche dal colore di capelli che ricordava parecchio il suo. Il giovane vampiro si esibì con un perfetto inglese, scusando entrambe per l’intromissione in casa sua, sostenendo anche che ci era abituato che diversi turisti la prendessero come un museo o un palazzo aperto al pubblico.
Aveva affinato la tecnica, quel copione lo recitava talmente bene che non aveva più bisogno della dominazione per costringerle a rimanere: bastava solo un po’ di seduzione e malizia.
Dopo averle portate nella sua stanza ed essersi divertito, Abel si era nutrito avidamente, per poi cancellare i ricordi delle due e lasciarle uscire indenni, anche se un po’ barcollanti. Aveva smesso di uccidere le sue vittime: prima o poi la polizia si sarebbe fatta due domande sul perché in centro a Bologna morivano misteriosamente delle persone. Le telecamere di sorveglianza avrebbero fatto il resto e poco ci avrebbero messo i marescialli a bussare alla sua porta. Non che avesse timore di qualche pezzo di carne con i loro insulsi proiettili, ma voleva evitare che qualcuno potesse anche avvicinarsi a lui e al suo rifugio, senza previo invito ovviamente.
Abel si stiracchiò nel letto, compiaciuto. Non esistevano minacce per lui, neanche le prede resistevano nel suo antro e lui non aveva bisogno di andarle a cacciare.
La sua casa era il suo tempio.
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Ottobre 2020, Palazzo Fava.
Di Palazzo Fava sapeva che era stato un fiore all’occhiello della città bolognese, che aveva ospitato diverse esposizioni artistiche e che per molto tempo era stato aperto al pubblico, questo fino a qualche anno fa, quando un misterioso compratore lo aveva acquistato per una cifra astronomica che aveva fatto gola al precedente proprietario.
Certo, la questione aveva echeggiato sui media nazionali, c’erano state proteste, cortei, tutti magistralmente repressi in modo pacifico: semplicemente dal nulla i più ferventi credenti del patrimonio artistico, architettonico e storico del palazzo o cambiavano idea o sparivano.
A un occhio attento come quello suo o di un qualsiasi altro dannato, non sfuggiva l’intervento di qualcuno del mondo della notte, che probabilmente aveva manovrato qualche influenza o qualche risorsa contingente da reprimere le insurrezioni e insabbiare la faccenda.
Le ricerche incrociate sue e di suo fratello avevano condotto chiaramente ad Abel, senza considerare che il suo sangue da manipolatore di menti era perfetto per fare il lavaggio del cervello a qualche invasato o qualche giornalista troppo impertinente.
Hulio guardò il porticato e l’ingresso, stranamente aperto. Non c’erano guardie, neanche uno straccio di servo che si intravedesse da una finestra: eppure Kaine aveva detto che c’erano diversi Hostewicks lì dentro, dove diavolo erano?
Lanciò un’occhiata furente alle sue spalle, dove sapeva esserci la Gerofante e Selene.
Se hai cantato giuro che finirai male.
Spostò lo sguardo alla sua destra e alla sua sinistra. La strada era stata chiusa, sia ai pedoni che ai veicoli dagli alleati di Ettore: alcuni presenziavano ai posti di blocco mentre altri stavano lì al loro seguito in attesa di un segnale.
“Che facciamo, la veglia qui fuori?” Sbottò Ezio Colonna “Non dovrebbero essere le due streghe qua a fare le preghiere?”
“Chiudi quella foglia piena di merda, Colonna. Preoccupati di tua moglie, si dice che le piacciano i mekhet esorcisti…”
Sentì il fratello sbuffare e Ettore Crisafi ridere sommessamente.
Quella lì non sa filtrare le fottute parole, maledizione!
“Calma, calma!”
Si frappose tra il Colonna e Kaine, guardando prima l’uno e poi l’altra.
“Dopo potrete prendervi a cazzotti, ma questo non è il momento.” Li indicò entrambi “Fate il vostro lavoro. Non vi chiedo di supportarvi, ma almeno fate quello per cui siete stati pagati.”
Un blocco di saliva si schiantò ai suoi piedi. La Gerofante gli aveva già voltato le spalle, rivolgendosi a Selene a bassa voce.
Sì, effettivamente quella reazione se l’era meritata, anche se probabilmente avrebbe sistemato i conti con la ventrue a tempo debito.
Intanto qualcuno si stava muovendo all’interno. Da lì fuori lui riusciva a vedere le aure di due umani, due ghoul per la precisione, dal colore che faceva intendere che il loro umore era tranquillo, rilassato.
“Che cazzo, ci stendono il tappeto di benvenuto?”
Crisafi non aveva tutti i torti. I due stavano stendendo un tappeto rosso che percorreva il corridoio e usciva dalla porta d’ingresso, come se fosse un chiaro invito ad entrare.
Hai anche la faccia tosta di prenderci per i fondelli, Caracciolo.
Sbatté le palpebre e attivò ancora la vista amplificata. Oltre alle due aure mortali, ce n’era un’altra in alto, proprio di fronte alla finestra. Era chiaramente un dannato e chiaramente era Abel che li osservava dall’alto, beffandosi di loro. Ma cosa aveva da compiacersi? Come poteva sentirsi sicuro lì, senza uno straccio di protezione? Hulio sondò ancora il palazzo alla ricerca di qualche aura nascosta, qualche presenza, qualsiasi cosa. Le mura però rimasero nere se non per quel punto di luce che era il Principe di Bologna.
Aspetti la morte, mh?
Guardò suo fratello e si scambiarono un cenno: erano pronti a partire.
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“Ma perché Abel non ha messo la sicurezza?”
Kaine non se ne capacitava. La porta aperta, il tappeto rosso, l’assenza apparente di qualsiasi persona nel perimetro: che fosse impazzito del tutto e volesse farla finita?
“Selenia”
L’accolita la guardò, in muta attesa.
“Cosa vedi?”
Era una banale domanda, ma Selene sapeva a cosa si stava riferendo. La vide volgere il volto verso la struttura e stringere con decisione gli occhi, per poi spalancarli di nuovo.
“Vedo gli altri. Sono dentro alla casa, tutti al primo piano.”
La mekhet sollevò il mento verso l’alto, spostando lo sguardo sulle finestre del piano superiore, fin quando non indicò docilmente con un dito la finestra centrale, debitamente oscurata da tende spesse.
“C’è qualcuno lassù.”
Anche Kaine concentrò la sua attenzione lì, anche se non poteva vedere altro che una finestra buia.
“La sua aura è strana, sembra quasi…ma…aspetta…”
Alternò lo sguardo dalla finestra a Selene, ringhiando sommessamente. Irrigidì i muscoli, pronta a correre o fare letteralmente qualsiasi cosa, ma l’altra era ferma immobile.
Spazientita, la strattonò con veemenza.
“È sparito” mormorò l’accolita “Si è…sciolto.”
Quando fissò gli occhi sulla porta d’ingresso, questa si chiuse con violenza, spinta apparentemente dal nulla. Fu in quel momento che Kaine comprese che probabilmente erano caduti in una trappola e, assurdamente, che la Madre non sbagliava mai: attaccare il palazzo di Abel non avrebbe portato a un buon esito.
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Regnava un silenzio innaturale nella sala del Palazzo Fava. Le radioline gracchiavano un’unica parola, ‘libero’, che si spandeva insieme ai respiri corti di alcuni soldati del Crisafi.
Juan non aveva fatto entrare in azione tutte le sue forze per non mostrarsi subito al suo nemico, il quale sembrava essere in quelle stanze, solo, ad attendere la sua fine.
Poetico, pensò, e patetico.
Guardandosi intorno, il Marinus dovette ammettere di essere sorpreso di come il Principe Abel fosse più pazzo e squilibrato di quanto desse a vedere. La sua casa, la dimora di un domitor, un nobile, un Ventrue per giunta, lasciava alludere a pratiche ben lontane dall’immaginario comune di un sangue blu.
Sul divano c’erano degli indumenti femminili, stracciati. Su una poltrona alcuni schizzi di sangue fresco, in un angolo un abito che ricordava vagamente quello di un santificato, con tanto di croce e copia becera del Testamento di Longino, sporco di qualcosa di biancastro e ormai secco.
Si portò la mano destra sulla cintola e le dita andarono a stringere l’impugnatura del paletto.
Presto…
“Saliamo”
Non c’era nessuno a frapporsi tra lui e la sua vendetta. Presto la punta del paletto si sarebbe conficcata nel petto di quel viscido e avrebbe dormito per almeno una cinquantina d’anni, per poi svegliarsi troppo rintontito per poter imbastire qualsiasi cosa.
Sì, bastava solo salire quelle scale.
Un rumore secco lo fece trasalire. Guardò verso l’ingresso della sala e poi gli altri che erano lì con lui. Hulio e Crisafi non si erano mossi, tanto meno i soldati: nessuno era andato a chiudere la porta da cui erano entrati, nessuno, a meno che…
Grida. Provenivano dalle altre stanze, insieme a vetri rotti e cose che sbattevano.
Sentì suo fratello snudare la spada e Crisafi caricare le pistole.
“Andiamo” disse, concitato “Potrà succedere qualsiasi cosa, ma Abel Caracciolo deve entrare in torpore.”
Non aveva neanche finito di dire quella frase che un boato, seguito da una scossa di terremoto, li fece crollare per terra, lui e suo fratello da una parte, Crisafi e i suoi soldati dall’altra. Tra di loro, una voragine circolare si stava facendo strada sul parquet e il mobilio, mangiandosi tutto ciò che trovava nel suo cammino: ogni cosa che cadeva, faceva risalire un odore inconfondibile di bruciato.
Kaine! Quella puttana ci ha traditi!
“JUAN, VIENI VIA DA Lì!”
Sentì solo qualcuno che lo prendeva per un braccio, trascinandolo a una velocità innaturale fuori dalla sala e facendolo schiantare contro il muro del corridoio. Prima che la porta si chiudesse, l’ultima cosa che vide fu uno dei soldati di Crisafi cadere nella voragine, che rimandò su una zaffata di odore acre di carne bruciata.
Suo fratello, paralizzato a fianco a lui, balbettava qualcosa di cui riuscì solo a carpire ‘Ettore’.
Si tirò su, aiutando anche l’altro. In quei momenti sapeva di dover essere più forte di lui, anche perché in fondo era più egoista e prima di pensare agli altri, ombre o non ombre, Juan Marinus pensava prima di tutto a sé stesso.
Le scale erano di fronte a loro, ferme e imponenti. Iniziò a correre, speranzoso che pure Hulio gli fosse accanto.
Ma le stregonerie, a quanto pareva, non erano finite.
Quello che sembrava un tavolino da fumo fu lanciato come un proiettile in sua direzione, tutti i lampadari rovinarono a terra al loro passaggio, il corridoio sembrava allungarsi a dismisura e non finire mai, mentre le urla e i rumori di ossa rotte delle altre stanze cominciavano ad acquietarsi fino ad estinguersi.
Quando finalmente raggiunse l’atrio, si rese conto che Hulio era alle sue spalle, ferito su un fianco.
Juan fece mulinare la spada e si guardò intorno, in attesa.
Un silenzio assordante gli fece comprendere che erano rimasti solo loro: tutti gli altri erano probabilmente fuggiti o peggio.
“Ci hanno traditi” mormorò, furente. “Maledette streghe.”
“Il loro potere non permette di fare queste cose”
Hulio stava accusando il colpo. Tra i due era sempre stato lui quello più debole a livello fisico.
“Che ne sai?” lo guardò cagnesco “Hai qualche conoscenza che mi dovresti comunicare?”
Una goccia gli si schiantò su una spalla, rossa scintillante. Il mekhet aggrottò le sopracciglia e levò gli occhi verso il soffitto. Un’altra goccia gli piombò su una guancia, poi un’altra e un’altra ancora. Iniziò a piovere sangue dal niente, fradiciando il pavimento e tingendo di rosso tutto, perfino loro stessi.
Improvvisamente una porta si aprì e ne uscì uno dei soldati di Colonna, che si muoveva come se manovrato da qualcosa, ciondolante ma con una pistola ben in vista e puntata verso Hulio.
Juan scattò e lo trafisse di punta ancor prima che potesse premere il grilletto. La carcassa si afflosciò per terra come se fosse burro, per poi rialzarsi dopo cinque secondi netti.
Ne uscirono altre di marionette e tutte con cattive intenzioni.
Dopo un paio di volte in cui entrambi riuscirono a schivare i colpi, arrivarono i primi proiettili che centravano il loro bersaglio. La scivolosità del pavimento, il dolore momentaneo delle ferite, l’incessante e incalzante presenza di questi corpi che non morivano mai, ben presto rese la battaglia una lotta di trincea, all’insegna di chi cadeva per primo.
Non sopravviveremo.
Guardò il fratello mentre colpiva per l’ennesima volta uno dei cadaveri. Dovevano uscire, subito.
“HULIO!”
Si concentrò il giusto per poter riattivare la Celerità. Puntò una finestra e come un sasso, ci si buttò contro, frantumando il vetro.
Cadde rotolando per un paio di metri, imprecando senza freni per il dolore. Gli uomini di Giulia Geremei, appostati dall’altro lato del palazzo, lo soccorsero immediatamente. Juan però non voleva essere toccato, non ancora, voleva vedere anche suo fratello catapultarsi fuori da quell’inferno, voleva saperlo salvo. Si mise in ginocchio e attese, scrutando le finestre basse del Palazzo Fava.
Andiamo, andiamo, andiamo…
Attese ancora. Strinse i pugni sulle ginocchia fradicie di sangue, non voleva demordere. Hulio sarebbe sopravvissuto. Ce l’avrebbe fatta, ne era in grado, riusciva ad usare i poteri del sangue molto meglio di lui, quando erano ancora dei neonati vampiri gareggiavano usando la Celerità e vinceva sempre: non poteva sbagliare, non adesso!
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Avevano provato di tutto, ma il potere che avvolgeva la casa di Abel era strano e troppo forte. Gli spiriti rifuggivano dagli ordini, si rifiutavano anche di avvicinarsi alle finestre, i rituali non sembravano dare i risultati sperati e neanche le invocazioni alla Madre.
Glielo aveva detto, lei, li aveva avvertiti. Perché non le avevano dato ascolto?
Non rimaneva solo che il silenzio e l’attesa.
Quando poi, come lo squarcio di un lampo nel cielo, si levò un grido iracondo, Kaine annuì gravemente.
Era finita.
[Continua]